In primavera, quando percorro sentieri pedemontani, notando la fioritura dell'Erica, ritorno indietro negli anni. Ricordo, quando ero bambino, di aver visto rudimentali scope, realizzate con rami secchi di Erica, tenuti insieme da spaghi di canapa o fili di ferro.

Rammento di essere rimasto sorpreso, quando, dai libri di selvicoltura, ho appreso l'esistenza di un’attività lavorativa, svolta da persone chiamate cioccaioli o zzumpari. Questi, usando un attrezzo tradizionale chiamato «zappaccetta» e rispettando le prescrizioni di massima e di polizia forestale, estraevano il ceppo basale dell’Erica, detto "ciocco", chiamato, nel dialetto locale, «zzumpo». Da questo, dopo alcuni processi di lavorazione, si realizzavano pipe di buona qualità. I cioccaioli, prima di cavarlo con l'ausilio della «zappaccetta», cioè di un attrezzo tradizionale, dovevano sapere riconoscere il ciocco maturo. Questo è generalmente tondeggiante, di peso non inferiore a 1,5-2 Kg e dal quale si potevano ricavare quattro abbozzi di pipe, aventi fibre idonee alla lavorazione.  Inoltre, dovevano essere in grado di eseguire sul materiale cavato una prima sommaria rifinitura necessaria ad eliminare le imperfezioni evidenti e i nodi. L’utilizzazione del ciocco d’erica, fino all’inizio degli anni cinquanta, è stata una delle principali fonti di guadagno di comuni che oggi ricadono nel territorio del Parco Nazionale dell'Aspromonte.

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