Le faccio questa breve intervista, destinata al mio blog, per capire la difficoltà del momento, comprendere le sue basi storiche, per incoraggiare alla conoscenza, alla ricerca, all’approfondimento e, quindi, perché si realizzino i valori di una concezione democratica dell’educazione e dell’organizzazione sociale.

Lei è stata insignita del premio Nobel per la Letteratura nel 2015 per aver raccontato gli episodi più tragici dell’Unione Sovietica, a partire dall’incidente nucleare di Chernobyl. Ha detto che a essere “inquinata” non è soltanto la nostra terra, ma anche la nostra coscienza.

Cernobyl è un soggetto alla Dostoevskij. Un tentativo di giustificazione dell’uomo. E se fosse invece tutto molto più semplice? Se fosse sufficiente entrare nel mondo in punta dei piedi e fermarsi sulla soglia?

Per la sua scrittura polifonica, un monumento alla sofferenza e al coraggio nel nostro tempo, lei è la prima persona bielorussa a vincere il prestigioso premio e la seconda persona di origini ucraine. Quali sono state le conseguenze del disastro?

Cambiò il mondo. Cambiò il nemico. La morte ebbe facce nuove che non conoscevamo ancora. Non si vedeva, la morte, non si toccava, non aveva odore. Mancavano persino le parole, per raccontare della gente che aveva paura dell’acqua, della terra, dei fiori, degli alberi. Perché niente di simile era mai accaduto, prima. Le cose erano le stesse – i fiori avevano la solita forma, il solito odore – eppure potevano uccidere. Il mondo era il solito e non era più lo stesso.

Lei è una giornalista e scrittrice bielorussa di lingua russa cosa si è datta a Londra con Mikhail Khodorkovskij?

Ci siamo detti che ci rendiamo conto di una cosa. Se una persona è stata nel Gulag sovietico, appena uscita non può essere libera, non sa cosa voglia dire la libertà. Hanno preso il sopravvento i banditi e continuiamo a vivere secondo le regole del Gulag. Noi non possiamo che preparare la gente per il futuro che potrebbe anche essere abbastanza lontano.

Grazie e buona vita

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